Il Lato cattivo – Ci è venuta in sogno la realtà

 

 Una risposta all’articolo “Il sogno di mille cose” scritta dai compagni del Lato cattivo.

marx

 «A misura che la realtà si crea, imprevedibile e nuova, la sua immagine le si riflette dietro, in un passato indefinito; essa si trova così ad essere stata, già da sempre, possibile; ma è in questo momento preciso che essa comincia ad esserlo, ed ecco perché dicevo che la sua possibilità, che non precede la sua realtà, l’avrà preceduta una volta che questa sarà apparsa. Il possibile è dunque il miraggio del presente nel passato: e giacché sappiamo che il futuro finirà per diventare presente, giacché l’effetto del miraggio continua senza posa a prodursi, noi ci diciamo che nel nostro presente attuale – che sarà il passato di domani – l’immagine di domani è già contenuta, per quanto non arriveremo a coglierla. Qui sta, per l’appunto, l’illusione. […] Considerando che il possibile non presupponga il reale, ammettiamo che la realizzazione aggiunge qualche cosa alla semplice possibilità: il possibile sarebbe già da sempre qui, un fantasma in attesa della sua ora; sarebbe dunque divenuto realtà per mezzo dell’addizione di qualche cosa, di non so quale trasfusione di sangue o di vita. Non ci accorgiamo che è il contrario, che il possibile implica la realtà corrispondente, con – in più – qualcosa che vi si aggiunge, poiché il possibile è l’effetto combinato della realtà una volta apparsa e di un dispositivo che la proietta all’indietro. L’idea – immanente alla maggior parte delle filosofie, e spontanea per spirito umano – del possibile che si realizzerebbe tramite un’acquisizione di esistenza, è dunque un’illusione pura». (Henri Bergson, Le possible et le réel, 1930, i corsivi sono nostri, NdA)

Una citazione stravagante, nel contenuto e nella firma; ma la più grossa stravaganza è il non volersi limitare a fare della semplice critica ideologica, ma cercare di inserirsi in una congiuntura precisa, aspirando a produrvi degli effetti. Ci eravamo ripromessi di riservare maggiore spazio ad alcune produzioni teoriche altrui, corredandole con qualche nota a margine; per una volta – e con colpevole ritardo – manteniamo i nostri buoni propositi. La congiuntura attuale, che giustifica una tale attenzione, è caratterizzata dall’impasse delle teorie e delle pratiche dell’azione diretta, che per circa un decennio si sono contrapposte frontalmente al progetto di riorganizzazione societaria del democratismo radicale, compendiato nello slogan «un altro mondo è possibile». Tali teorie e tali pratiche – ideologicamente connotate come “autonome” o “anarchiche” – avevano ed hanno come orizzonte il fatto, da un lato, di porre il comunismo come una questione attuale, e dall’altro – rifiutando ogni mediazione temporale –, di trasformarlo immediatamente in una serie di forme di lotta, di comportamenti o modi di vita, che sarebbe possibile isolare come insieme di pratiche già adeguate alla rivoluzione comunista o, più concisamente, come “il comunismo in atto”. In questo senso, la promozione dell’alternativa, sebbene non sia sempre chiaramente formulata o praticata, è la loro tendenza naturale.

La teoria della comunizzazione – o almeno alcune sue correnti – è presa, da un lato, in un fraterno scambio di insulti con gli zombie delle Sinistre Comuniste storiche (“bordighista” e “consiliarista”), dall’altro in un confronto acceso e più proficuo con tutte queste teorie e pratiche dell’azione diretta. La sua specificità è di non averle considerate come una “deviazione” ideologica rispetto ad una norma, ma come una manifestazione necessaria – tra molte altre – che racchiude a suo modo il contenuto rivoluzionario dell’attuale ciclo di lotte: la rivoluzione sarà immediatamente comunista o non sarà. Noi registriamo oggi l’impasse a cui è andato incontro il movimento d’azione diretta, e che affonda le sue radici nella nuova fase apertasi con la crisi del 2008: la precarizzazione generale impone coercitivamente e massifica quelle forme di “marginalità” (utilizziamo questo termine impreciso per pura comodità) rispetto al mercato del lavoro, che fino a ieri potevano apparire come una scelta di resistenza individuale al lavoro salariato; si ripone con forza la questione del modo di produzione in quanto totalità gerarchizzata e differenziata – destabilizzando l’equivalenza e l’intercambiabilità dei “fronti di lotta” implicite nel modus operandi dell’attivista “proteiforme”; il democratismo radicale e il suo sogno di un capitalismo dal volto umano, presi come tali, non esistono più come pericolo di un riformismo rivivificato, oggi reso impossibile dalla crisi (ciò non toglie che gli stessi contenuti possano essere ripresi oggi dai movimenti di occupazione delle piazze; ma si tratta di un cambiamento qualitativo).

Ora, la posta in gioco nelle elucubrazioni teoriche come la presente, è una cosa nient’affatto nuova: è ancora la critica di ogni rapporto positivo, di crescita graduale, di “transcrescenza” tra le lotte quotidiane e la rivoluzione. Ma non è sufficiente fare una critica “illuministica”, opponendo il vero al falso; bisogna far emergere l’impalcatura su cui si reggono un discorso teorico e la pratica corrispondente. Sul versante delle teorie e delle pratiche dell’azione diretta, se qualcosa di veramente nuovo potrà emergere dalla loro crisi e dalla loro critica, sarà certo una rimessa in causa della tendenza all’alternativa a cui abbiamo accennato – rimessa in causa che, ben lungi dal ridursi ad un rettifica o ad un semplice cambiamento d’opinione, presuppone un vero e proprio riposizionamento esistenziale rispetto alle lotte. In un doppio movimento, ciò potrebbe significare, per la teoria comunizzatrice, l’essere interpellata e costretta ad uscire dalla “clandestinità” dorata in cui tutt’ora vive. Speriamo che ciò che segue sia un passo in questa direzione.

Il testo che ci accingiamo a commentare è Il sogno di mille cose, uscito sul blog che ne riprende il titolo ed egualmente sul mensile anarchico «Invece», n. 18, novembre 2012, pagina 5. L’interesse di questo breve testo, ovvero la ragione per la quale ha attirato la nostra attenzione, sta in un paio di frasi, di come se ne leggono davvero raramente nella letteratura “radicale” nostrana. Ecco la prima: «Comunismo significa infatti impedire che qualcosa sia isolabile dalla totalità del vissuto come rapporto di produzione». La seconda : «L’orizzonte è un comunismo senza transizione, preso nel suo divenire non come cambiamento dei rapporti di produzione ma come loro fine […]». Due frasi limpide, fulminee, perfette. Il problema, come vedremo, è tutto lo svolgimento che porta a questa ridefinizione essenziale del comunismo, e che in tal modo parzialmente la invalida. Le due proposizioni citate non sono giustificate né legittimate da alcunché nel corso del testo, si presuppongono come incontestabili ed assiomatiche, e tutto Il sogno di mille cose sembra costruito a partire da quelle. Ritorneremo ancora su questo punto; per ora limitiamoci a dire che, sebbene i motivi presenti nel testo siano fortemente anti-programmatici, questa maniera di procedere rimane, viceversa, profondamente programmatica: non è la definizione della situazione presente della lotta di classe, o della struttura attuale dei rapporti di classe, ad autorizzare una certa idea “di cosa sarà poi” ma, all’inverso, una certa definizione “di cosa sarà poi” che autorizza a parlare della situazione presente; ciò significa che quest’ultima esiste solo per procura, esiste solo in quanto passibile di realizzare il fine prestabilito.

Ciò che ci viene presentata dall’Autore, a prima vista, è innanzitutto una lettura del presente, che sarebbe caratterizzato da «[…] tensioni, conflitti aperti o incipienti […] Potremmo chiamare questo scenario guerra civile»; ci viene poi descritto «…un deserto planetario dove la minoranza libera dei cittadini è attorniata da masse di spossessati ridotti ad una miseria sempre più parossistica…». Vedere nella realtà attuale l’utopia rovesciata di una società totalmente dualistica, calcata sul modello dell’antica società schiavistica ateniese, può essere suggestivo, ma ci sembra contestabile. Che le cose stiano ben diversamente, sono i sommovimenti sociali della fase attuale a mostrarcelo. Più precisamente, se ancora le sommosse del 2008 in Grecia, potevano far sperare in un’evoluzione “chiarificatrice”, verso un puro gioco a due di “dominati” contro “dominanti”, le varie Primavere Arabe, e le rivolte ancor più marcatamente interclassiste in Turchia e Brasile, mettono in evidenza ancora una volta la capacità delle classi medie di catalizzare la protesta contro le conseguenze della crisi (che non ha gli stessi effetti ovunque), e la complessità della dinamica attraverso cui tutto ciò prende forma. Naturalmente, il proletariato c’è, ma è ben lungi dal manifestarsi come forza autonoma ed indipendente. Passiamo oltre. Gli strali del nostro Autore si indirizzano contro una presunta «…reviviscenza di forze reazionarie [che] basa il suo agire… sulla rifondazione artificiale di comunità… Da Alba Dorata all’Islam più radicale il gioco è lo stesso, sporco quanto efficace». Il “gioco”, a nostro avviso, non è esattamente lo stesso: diverse sono le situazioni e diverse le poste in gioco. Prima che lo Stato greco divenisse “antifa”, Alba Dorata poteva vantare il piccolo exploit alle ultime elezioni politiche, ma si ritrovava con una base militante assai più ristretta di quella elettorale e con delle capacità di “fare comunità” (mense e distribuzioni di viveri gratuiti) assai ridotta rispetto a quel che poteva sembrare sui media del resto d’Europa. Il vero fenomeno greco è il successo di Syriza, partito ormai prediletto anche da molti libertari, realmente capace di inserirsi nel conflitto reale che oppone la Grecia alla Troika all’interno degli equilibri UE. Più pertinente è il riferimento all’Islam radicale che – è vero – ha assunto in più punti del globo la funzione di messa in forma politica dei limiti della classe, un tempo assolta, nelle zone periferiche, dal socialismo nazionale panarabo, laico e progressista.

Ciò detto, mettiamo bene in chiaro che non è questo l’essenziale. Al di là delle differenti valutazioni, si tratta di riconoscere in filigrana ciò che permette di assimilare i due fenomeni: la situazione – ci dice l’Autore – è ricca di potenzialità. Ecco la parola chiave da cui bisogna partire per rendere intelligibile il dispositivo teorico che pervade tutto il testo! Questo dispositivo è un andirivieni tra potenzialità o tendenze da un lato, e la loro realizzazione sempre distorta dall’altro, che di volta in volta assume forme e fattezze differenti. Questo dispositivo – per la sua stessa struttura – deve necessariamente fare apparire un dirottamento, un “recupero”, e dunque conduce necessariamente ad una problematica della manipolazione. Non per nulla si fa cenno ad un «…fronte della sinistra che torna ad affacciarsi…», anche se cinque righe prima «le opzioni socialdemocratiche e di mediazione sociale» erano sprofondate col XX secolo. Nella notte dei “recuperatori” tutte le vacche sono nere, ed ecco che la suddetta guerra civile planetaria si sarebbe già trasformata in rivoluzione, se non ci fossero i soliti «…recuperatori dell’odio sociale, religiosi o politici che siano…». Ed eccoci alla conclusione di cui si diceva sopra. Diciamolo chiaro e tondo: la manipolazione e il cosiddetto “recupero” nella lotta di classe tendenzialmente non esistono, e credere nella loro esistenza è fare propria una concezione poliziesca della storia, prendere alla lettera lo Stato, i sindacati, Beppe Grillo e chi più ne ha più ne metta. Ciò che tutti gli aspiranti “recuperatori” come tutti gli aspiranti “dirigenti rivoluzionari” (e di rimando tutti quelli che li prendono in parola) non comprendono, è che se le loro manovre hanno successo è sempre perché sono già l’espressione (e non la causa) dell’orientamento e della prassi dei soggetti che si fanno “recuperare” o “dirigere”. Detto per inciso, anche la passività è una prassi, e tanto basta a dire che ognuno ha sempre i recuperatori e i capi che si merita.

Soffermiamoci un attimo, en passant, sul preteso «…divenire irrazionale dei conflitti…» con tanto di «…dilagare della violenza diffusa sempre meno mediata e regolabile…». Considerando che abbiamo alle spalle un secolo segnato da due guerre mondiali (50 e passa milioni di morti e due bombe atomiche nella Seconda), un po’ di prospettiva storica dovrebbe bastare per dire che, se il criterio è la razionalità, il nostro presente non è più né meno razionale del passato. Ma forse, ciò che si vuole dire in questo passaggio è, più schiettamente, che gli sfruttati di ogni latitudine sembrano essere più intenti a farsi la pelle fra di loro che a farla ai loro sfruttatori. Più che in passato? («…divenire irrazionale…» presuppone che un tempo fosse diverso). Ancora, le due guerre mondiali sono illustrative al riguardo. Ebbene sì, i proletari hanno una patria, e possono tranquillamente scannarsi fra di loro, per la semplice ragione che per vivere vendono la loro forza-lavoro e per farlo si fanno concorrenza; per la semplice ragione che la loro unità è immanente alle loro divisioni e queste ultime sono sempre prese all’interno delle rivalità inter-capitalistiche; per la semplice ragione che appartengono ad una classe che è non è “la classe impossibile” del Marx giovane e idealista (concetto ripreso in un altro articolo di «Invece», pieno di controsensi) ma una classe del modo di produzione capitalistico – a cui il sindacalismo e il riformismo non fanno altro che dare forma. Per quanto riguarda il dilagare della violenza, ciò che è vero è che mai come oggi la violenza è stata un agente economico; mai come oggi economia e violenza, violenza e rapporti sociali si sono interpenetrati, dal “micro” al “macro”, a tutti i livelli; l’errore sta nel leggere questo fatto nei termini di un’opposizione tra caos e ordine, come una sorta di debordamento dell’ordine – non perché in sé questo debordamento non si dia, ma perché è un debordamento dell’ordine all’interno dell’ordine: l’«impero del caos» (cfr. Alain Joxe, L’impero del caos, Sansoni, Milano 2003) è questo mondo bizzarro in cui la proliferazione delle “economie sporche”, la balcanizzazione, l’etnicizzazione, la creazione di zone di crisi, le attività informali di sussistenza, la “guerra di tutti contro tutti”, non sono il sintomo di una contrazione, di un venir meno dei rapporti capitalistici, ma un loro elemento costitutivo e strutturale.

Più oltre, giustamente, l’Autore riconosce «…guardando al secolo scorso, il fallimento nefasto di tutte le politiche di cambiamento rivoluzionario e lo sprofondamento del socialismo in ogni sua variante…»; ma per sostenere che «l’attualità di una prospettiva anarchica si ripropone in tutta la sua materialità». Eppure c’è a chi la rivoluzione spagnola del 1936 non ha lasciato un gran bel ricordo. I ministri anarchici al governo, l’interdizione del diritto di sciopero ed il produttivismo da economia di guerra nelle imprese collettivizzate, i fatti del maggio ’37… Ragionando per assurdo, ci verrebbe da dire che probabilmente è meglio che sia andata così, perché se invece dei tentennamenti e del collaborazionismo fossero prevalsi, all’interno del campo libertario, la decisione e la dittatura anarchica («dittatura per dittatura, tanto vale che sia la nostra», Durruti dixit) ci saremmo trovati con un’altra transizione totalmente isolata internazionalmente, che avrebbe trovato nel giro di poco tempo, tra un temporeggiamento e l’altro, un altro personale di gestione meno intransigente, ed anche il proprio “Padre dei popoli” pronto a fare l’anarchia in un solo paese. Tanto basta a dire che è tutto lo spettro del programma proletario (socialdemocratico, leninista, consiliarista ed anarchico) ad essere sprofondato, e non sarà certo la riesumazione di qualche refrattario, che sia Renzo Novatore o William Morris o Vallanzasca, a cambiare le cose. L’Autore ci avverte di voler utilizzare tutta questa “anarchia” in senso strettamente etimologico; ma si sa che l’etimologia, come ogni mito dell’Origine, vale solo in contrapposizione alla storia reale.

C’è poi, nel testo che prendiamo in esame, la postura interventista («…prendere parte alla guerra civile in corso al fianco della nostra classe…») che consiste a) nel fare dell’intervento una questione per sé, dove scompaiono le pratiche particolari, inscindibili da questa o quella situazione particolare, e viene creata un’astrazione della Pratica con la P maiuscola, buona per tutte le situazioni e le stagioni; b) nel riformulare la questione delle pratiche come se si trattasse della scelta individuale di partecipazione soggettiva dei “rivoluzionari” ad un corso oggettivo, a cui costoro potrebbero anche non partecipare. Strani esseri, però, questi rivoluzionari, che sono tali anche senza rivoluzione e che godono del lusso di poter scegliere se partecipare o meno alla rivoluzione ma, beninteso, rimanendo sempre rivoluzionari, quale che sia la scelta. È il problema dell’individuo isolato come punto di partenza metodologico, ciò che conduce inevitabilmente a tutta una serie di annosi problemi metafisici di cui la stragrande maggioranza dei terrestri – per i quali la propria situazione di classe non è una scelta, e la lotta di classe non è una questione di “intervento” o “non intervento” – è del tutto all’oscuro. Anche qui vediamo all’opera il dispositivo teorico della “potenzialità”, del tutto consustanziale alla teoria e alla pratica interventista: trasformare la pratica in intervento sistematico è funzionale allo scopo di liberare determinate potenzialità che, pur inespresse o dirottate (“recuperate”), sarebbero presenti nelle lotte.

Naturalmente, il sempiterno obiettivo polemico dell’interventismo, fabbricato su misura, è sempre là, è il “determinismo”, designato qui perfino con nome e cognome: «Che il comunismo in questione faccia a meno sia del marxismo che di Marx è a questo punto scontato». Il verdetto è ultimativo e senza appello: “scontato”. Rimane che, se a qualcuno un giorno venisse la curiosità di leggere Marx, di leggerlo per davvero, potrebbe trovarvi qualche spunto di critica riguardo a questo comunismo immediatista, a cominciare dalla due paginette delle Tesi su Feuerbach (1845), e in particolare dalla terza tesi: «La dottrina materialistica della modificazione delle circostanze e dell’educazione dimentica che le circostanze sono modificate dagli uomini e che l’educatore stesso dev’essere educato. Essa è costretta, quindi, a separare la società in due parti, delle quali l’una è sollevata al di sopra di essa (società). La coincidenza del cambiamento delle circostanze e dell’attività umana può essere concepita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria». L’ultima frase, la si può leggere anche al contrario: la prassi rivoluzionaria può essere concepita o compresa razionalmente solo come coincidenza del cambiamento delle circostanze e dell’attività umana. Critica simultanea – e sempre valida – rivolta a coloro che vogliono cambiare le circostanze per cambiare l’attività (blanquismo), e a coloro che vogliono cambiare l’attività per cambiare le circostanze (educazionismo). Nell’uno come nell’altro caso, con i pretesi rivoluzionari – questa parte della società «sollevata al di sopra di essa» il conto è regolato.

Gli stessi problemi li ritroviamo all’opera allorché abbiamo a che fare con «…il gesto immediato della cospirazione [che] destituisce l’economia…», con le felici nozze tra «…autonomia materiale ed attacco del comando capitalista…» e tra «…autonomia materiale ed un comune nel quale incontrarsi…»: l’esistenza o la non esistenza dell’economia e di «…qualcosa che sia isolabile dalla totalità del vissuto come rapporto di produzione…», sono cose che sembrano esistere per auto-suggestione, e che si dissolvono grazie ad una mera scelta soggettiva. Qui non si tratta tanto di ricordare (cosa che comunque non guasta) che i fenomeni economici non sono come le balle dei preti che tengono a bada il popolino, quanto di dire che l’oggettività dei fenomeni economici è essa stessa un prodotto del rapporto sociale capitalistico, il cui principale risultato è di riprodurre senza sosta la separazione radicale tra soggetto e oggetto, di riprodurre il proletario come proletario, da un lato, il capitale come capitale, dall’altro: «Nella società borghese il lavoratore, ad esempio, ha un’esistenza del tutto priva di oggetto, solo soggettiva; ma la cosa che gli sta di fronte (cioè il capitale, NdA) ora è divenuta la sua vera comunità, che egli cerca di consumare e dalla quale viene consumato.» (Marx, Grundrisse, in Opere, vol. XXIX, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 429). Questa cosa colossale ed inimmaginabile che – riprendendo le parole dell’Autore – sarebbe «…impedire che qualcosa sia isolabile dalla totalità del vissuto come rapporto di produzione…», la possiamo cogliere prendendo l’esempio del rapporto di parentela – più prosaicamente: la famiglia –, che in tutte le società storicamente succedutesi fino ad oggi è sempre stato un rapporto di produzione che ha variamente predisposto, modellato e messo in funzione la capacità riproduttiva (produzione della popolazione): forse che, nel mondo attuale, basti un decreto individuale per smettere di avere dei padri e delle madri, e perché tali rapporti cessino di riprodursi generazione dopo generazione?

Veniamo al discorso sulla “autonomia” e diciamo pure che qualche secolo di proletarizzazione galoppante ha radicalmente eliminato ogni comunità e autonomia che non siano quelle del capitale. È qui che tutti i San Tommaso sono pronti a levarsi di soprassalto: e allora, come si fa? Bisognerà pure che questa benedetta autonomia salti fuori da qualche parte! Ma se è vero che l’orizzonte odierno è «un comunismo senza transizione», è precisamente perché la difesa e la promozione dell’autonomia del proletariato – esistente o da costruire – ha perduto ogni significato. Valorizzare l’autonomia significa sempre valorizzare ciò che si è oggi, nelle condizioni attuali; il movimento operaio, il programma proletario, potevano farlo poiché esprimevano la prospettiva della liberazione del proletariato sulla base di ciò che esso è nella società del capitale, sulla base della sua condizione di classe del lavoro produttivo. Con la ristrutturazione capitalista degli anni 1970-’80, il proletariato non è scomparso, ma la sua esistenza non è più ratificata dal capitale ad alcun livello della società (politica, ideologia, diritto etc.). Tutto ciò che permetteva al proletariato di costituirsi in “monopolio” su di un’area nazionale, è stato tendenzialmente demolito. Per i teorici dell’autonomia, essa diviene allora un’autonomia sui generis, di cui si precisa ben raramente il soggetto e la sua base eventuale. La famosa «…distruzione anarchica delle strutture del potere…» (Bonanno aiutando) ricalca ancora e sempre lo schema classico dell’autonomia, che è quello della liberazione del soggetto presupposto, dell’affermazione umanista del soggetto sull’oggetto – ciò che rimane al di qua della comprensione dell‘identità tra soggetti e strutture in quanto totalità contraddittoria. Paradossalmente, l’autonomia operaia è salita alla ribalta come parola d’ordine – tanto da diventare la sigla di una precisa area politica – proprio nel momento in cui stava definitivamente venendo meno ogni suo fondamento. Già allora, a ben vedere, il fatto di agitare questo concetto come un mantra, come una panacea per tutti i mali, significava prendere atto che la realtà che gli corrispondeva non andava più da sé, che bisognava disperatamente salvaguardarla, ricrearla o ricercarne una nuova incarnazione; ma i giorni erano contati. A mo’ di battuta – ribaltando la formula di Putin a proposito dell’URSS –, dell’autonomia si potrebbe dire: chiunque non ne abbia nostalgia non ha cuore, chiunque voglia riportarla in vita non ha cervello

Più profondamente, ciò che sfugge all’Autore è la specificità del proletariato come classe, la natura del suo rapporto al capitale – che fu di parziale esteriorità al modo di produzione capitalistico solamente per una ben precisa e delimitata fase storica –, e in cosa si radichi la sua capacità di abolire se stesso e tutte le classi. Al contrario della borghesia – per la quale la presa del potere politico avviene sulla base di un potere economico che già si è affermato all’interno della società feudale – il proletariato, all’interno della società capitalistica, non conquista alcuna posizione, non può fare leva su alcun elemento proprio del modo di produzione esistente: né le forze produttive, né la divisione del lavoro, né la scienza, né la cooperazione (come invece credettero alcuni operaisti). Tutte le forze sociali del lavoro esistono solo se vengono appropriate dal capitale, esistono solo come forme di sviluppo di quest’ultimo. Il modo di produzione capitalistico non genera nel suo grembo alcun “modo di produzione comunista” a cui basterebbe aprire la strada con un atto di forza più o meno politico. Lo sviluppo dell’ “operaio combinato” – ovvero di una forza-lavoro attivata in maniera sempre più sociale e collettiva – non è la prefigurazione di alcunché. Essere una forza-lavoro collettiva oppure non essere nulla: è questo, per i proletari, il dilemma. Le categorie del Capitale, dei Grundisse e di altri testi maggiori di Marx – la definizione del capitale come contraddizione in processo, il concetto di modo di produzione, le forme fondamentali dello sfruttamento: plusvalore assoluto e plusvalore relativo, la sussunzione formale e la sussunzione reale del lavoro al capitale, la caduta tendenziale del saggio di profitto etc. – se servono a qualche cosa, servono a definire la situazione di classe del proletariato e la sua capacità di distruggere la società capitalistica. E se certamente la “riuscita” della rivoluzione non è in nessun caso subordinata al numero di copie vendute dai testi marxiani, c’è da chiedersi seriamente se, in materia di teoria rivoluzionaria, sia legittimo considerare l’utilizzo di queste categorie come un optional – posto che qualsiasi discorso sulla rivoluzione contiene, consciamente o inconsciamente, i suoi presupposti teorici. Andiamo al sodo: come dare una definizione dello sfruttamento e delle classi, senza chiamare in causa le nozioni di lavoro socialmente necessario e pluslavoro? Come parlare di capitalismo senza parlare di plusvalore, di lavoro astratto etc. Certo, anche un onest’uomo di Chiesa può parlare di cose come il dominio e lo sfruttamento: ma siamo certi che sia la stessa lingua? Allora delle due l’una: o ce la prendiamo solamente con l’eterna malvagità dell’essere umano, oppure mobilitiamo le categorie critiche adeguate, facendole lavorare fino in fondo, con tutte le implicazioni del caso.

Veniamo infine alla conclusione: «Questo comunismo è attacco alla proprietà… attacco alla polizia etc. etc.». Il comunismo non esiste per transustanziazione in ogni bagatella con le forze dell’ordine; quel che ci può essere di vero in questa proposizione è che alcune pratiche attuali del proletariato, alcune attività di classe annunciano talune caratteristiche del rivolgimento rivoluzionario a venire. Ma non sono l’attacco alla proprietà o lo scontro con la polizia in quanto tali a fare questo: dipende dal quadro e dal frangente in cui essi si situano. Ci si può scontrare con la polizia anche per difendere (del tutto legittimamente) il posto di lavoro. Ci si può scontrare con la polizia – a dirla tutta – anche con l’intenzione di malmenare il magrebino o il “frocio” di turno, come accaduto non troppo tempo fa in Francia, in occasione delle manifestazioni contro il matrimonio omosessuale. Idem dicasi per l’attacco alla proprietà. Vero è che tutto ciò (e molto altro) può trovare il suo posto nell’attività di rimessa in causa della propria condizione di classe da parte di questa o quella frazione del proletariato, ma ciò che conta di più è il fatto che questa rimessa in causa abbia luogo. Senza dimenticare che il più delle volte quest’ultima non è fatta di azioni “radicali” o spettacolari, ma del semplice fatto di vivere coscientemente, nel corso di una lotta, la propria condizione di classe come una costrizione imposta dal (e oggettivata nel) capitale; ovvero di opporsi al capitale in quanto comunità propria. Senza dimenticare che se tale rimessa in causa può manifestarsi oggi, in maniera necessariamente dispersa e sparpagliata, è perché una lacerazione attraversa la condizione proletaria e il “mondo del lavoro”: dissoltisi movimenti operai e socialismi reali, estintosi l’“orgoglio proletario” e messa in soffitta la bandiera rossa, non resta altro che la necessità di guadagnarsi il pane col sudore della fronte… laddove è possibile. Dietro la tenuta antisommossa dello sbirro, c’è tutta la produzione e la riproduzione dei rapporti sociali. La rivoluzione diventa realmente possibile quando i proletari riconoscono nella tenuta antisommossa la loro propria esistenza come classe del capitale, quando nello scudo dello sbirro trovano lo specchio che rimanda loro la loro stessa immagine riflessa.

Possiamo dire (pur mantenendo una grande cautela) che il comunismo sarà così o colà; ma fondamentalmente il comunismo sarà un prodotto storico, il prodotto uscito dal suo “processo di produzione” storico – ciò che noi e altri chiamiamo comunizzazione. I tratti di tale “processo di produzione” possono essere intravisti in alcuni precisi frangenti delle attuali lotte proletarie quotidiane, tenendo sempre presente che quello sarà in rottura con queste e non un loro semplice aumento quantitativo. Questa è l’unica maniera che riteniamo teoricamente legittima di parlare di comunismo. Altrimenti, che lo si definisca come un rapporto di produzione o come la fine di tutti i rapporti di produzione storicamente succedutisi, non si sarà enunciato «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» (Marx & Engels, L’ideologia tedesca) ma ancora e soltanto un programma, magari un’utopia o un sogno, sempre e comunque «un’idea alla quale la realtà si debba conformare» (ibid.)

This entry was posted in General. Bookmark the permalink.