Robert Kurz – Nessuna rivoluzione, da nessuna parte

 

Kapd 2

 

Lettera aperta alle persone interessate ad EXIT! nel passaggio dal 2011 al 2012

Per molto tempo la cosiddetta sinistra di movimento si è giudicata superiore all’opposizione, anche alla semplice relazione tra riforme e rivoluzione. Il che poteva significare solo che tra riforme e rivoluzione non si sapeva più cosa dovesse prevalere. L’obiettivo dell’abolizione rivoluzionaria del capitalismo, come catalizzatore necessario per le riforme sociali, per quanto modeste potessero essere, non era mai stato riformulato ma era stato semplicemente attribuito in tutta fretta al defunto marxismo di partito e di Stato, per poterlo più facilmente scartare. Quanto allo stupido culto post-moderno delle superficialità ordinarie e dei vuoti dettagli, nonostante il suo linguaggio lambiccato, esso non va al di là del vecchio livello di certezze ma si dimena impotente al loro lato.

In realtà, l’idea di rivoluzione è stata chiusa nell’armadio dall’ideologia decostruttivista dei movimenti di sinistra dal momento che non disponevano nemmeno della forza necessaria per una banale riforma all’interno del quadro capitalista. Come ognuno sa, il neoliberalismo, comune a tutti i partiti, aveva messo le mani sul concetto di riforma per rivoltarlo come un guanto, senza incontrare alcuna resistenza significativa. Non solo le lotte sociali reali si sono rarefatte ma hanno abbandonato qualsiasi riferimento alla critica radicale della società per limitarsi ad una timida difesa di gretti interessi particolari. Invece di un’incidenza più forte nei rapporti sociali è sorta la performance mediante azioni simboliche, sotto forma di “happening”; da qui la farsa dei “movimenti”, ormai quasi immobili, che fingono di svolgere il proprio ruolo davanti alle telecamere dei media. Alle bolle finanziarie del capitale in crisi fanno da contraltare le bolle dei movimenti di sinistra che, anch’esse, devono finire per scoppiare.

Tanto meno credibile appare in queste condizioni l’improvvisa inflazione del termine rivoluzione, che ha trovato una seconda primavera in tutto il mondo nel 2011, senza che le idee del passato siano state oggetto di un minimo riesame critico né della minima modifica. Abbiamo avuto in primo luogo la cosiddetta rivoluzione araba che, a prezzo di numerosissime vite umane, è riuscita a far cadere qualche regime autoritario (Tunisia, Egitto, Libia) mentre altrove è stata schiacciata sul nascere dall’esercito (Siria, Algeria, Bahrein, Yemen). In rapida successione ci sono state delle sommosse anche in Europa. La Gran Bretagna ha visto sollevarsi violentemente i giovani delle disperate classi inferiori, cui il governo conservatore ha risposto prendendo un modello di repressione per così dire arabico. I paesi sud-europei colpiti dalla crisi del debito (Grecia, Spagna, Portogallo, Italia) hanno visto movimenti sociali più o meno grandi protestare contro la brutale politica d’austerità rivolta principalmente contro le giovani generazioni. Israele ha presentato grosso modo un quadro analogo, con manifestazioni di massa contro le politiche antisociali del governo Netanyahu. In Cile, gli studenti si sono ribellati all’orientamento neoconservatore dell’insegnamento. Negli Stati Uniti, infine, il movimento Occupy, con il suo discorso diretto contro la disuguaglianza crescente e contro il potere delle banche, è apparso come un contrappeso agli ultraconservatori del “Tea Party” ed è stato emulato in diversi paesi, compresa la Germania.

Questa sinistra che annusa il culo alla minima manifestazione sociale che si vede per la strada, ciò che più avrebbe desiderato era di divertirsi nei paesaggi fioriti di un anno 2011 della rivoluzione. Solo che, tralasciando l’opportunismo cinico con cui si è operato per dissotterrare freneticamente quest’imbarazzante parola che comincia con la R, che rimaneva sotterrata e dimenticata, è chiaro che la mera adulazione dei diversi movimenti contestatari e insurrezionali non aiuta a nulla la causa dell’emancipazione sociale. Marx ha giustamente sottolineato come una trasformazione realmente rivoluzionaria progredisce solo nella misura in cui si criticano – senza pietà! – i suoi inizi e le tappe successive, al fine di poter respingere e superare le mezze verità, le ricadute negative e le aberrazioni. In caso contrario, tutta l’impresa può trasformarsi nel suo opposto. Decisiva è qui l’importanza della riflessione teorica. A maggior ragione in una situazione come quella di oggi, in cui ancora non c’è un’idea sviluppata di rottura rivoluzionaria con l’ordine stabilito. La forma d’intervento è la polemica sullo stato dei movimenti; se ci si limita ad adattarvisi, se ci si accontenta di parteciparvi con compiacimento, ciò equivale non solo a reagire in modo puramente tattico su delle basi ideologiche errate ma a confermare gli attori nella loro illusione di immediatezza. Dopo più di 250 anni di storia della modernizzazione, la spontaneità innocente non esiste più.

Procedere ad un’analisi critica, richiede in primo luogo il misurare su una scala per così dire esistenziale il grado di durezza dell’insurrezione e della repressione. I movimenti di massa arabi hanno sacrificato deliberatamente numerose vite ed hanno realmente rovesciato dei governi. Gli scontri nell’Europa del Sud ed in Gran Bretagna, sebbene violenti nella scala dei rapporti sociali delle metropoli occidentali, sono stati tuttavia molto meno intensi e largamente inefficaci. Altrettanto si può dire per Israele e Cile. Quanto al movimento statunitense Occupy, conteneva essenzialmente un moralismo senza mordente, superficiale e banale, che gli imitatori tedeschi si sono incaricati di abbassare ulteriormente al livello di gnomi da giardino: una banda di delegati di classe che pongono delle belle e gentili domande. Chiaro che le differenze nella militanza esterna non dicono niente al riguardo di un contenuto rivoluzionario, il quale può essere determinato solo dalla profondità della critica radicale, ma indicano il differente livello di rovina e disperazione in diverse aree del mondo.

La nuova crisi economica mondiale non è in alcun modo terminata ed è ben lungi dall’essere confinata alla sola sfera dell’economia, ma determina nella maggior parte del globo serie distorsioni sociali che non possono risolversi nelle rispettive condizioni e forme di sviluppo specifiche, poiché si riferiscono a strutture generali del capitalismo globale. Da un lato, si assiste ad un’esplosione generalizzata dei prezzi dei generi alimentari; ciò colpisce innanzitutto gli strati più bassi, ma resta il fatto che anche le famiglie a reddito medio cominciano a soffrirne sempre di più. Si sovrappongono qui i limiti interni (economici) ed esterni (ecologici) del capitale. Nel caso dei prodotti agricoli, gli effetti della politica inflazionista adottata dappertutto, e che consiste in un fiume di denaro versato dalle banche centrali, sono aggravati dalla produzione crescente di biocarburanti al posto degli alimenti di base, che allo stesso tempo diventano sempre più scarsi a causa di catastrofi naturali socialmente provocate. Ciò è noto in tutti i paesi senza nessuna eccezione, ma questa tendenza diventa insopportabile laddove, come nei paesi arabi, il costo dei generi di base consuma il grosso del bilancio familiare per la maggior parte della popolazione.
D’altra parte, la crisi economica mondiale ha visto drammaticamente accentuarsi la precarizzazione dei giovani laureati. Si tratta, ancora, di un fenomeno globale; anche in Germania è conosciuta la “generazione stage”, e non risale certamente a ieri. In Europa del Sud la disoccupazione giovanile colpisce dappertutto e vede oltrepassare la barriera del 50%, mentre dequalificazione e sottoimpiego aumentano sempre più. Non è solo la Cina, dove i laureati trovano sempre meno un posto commisurato alle loro capacità. Da dottorando ad assistente del cameriere, afferma lo slogan della decadenza. Per i dottorandi, come per gli “extra” impiegati nella ristorazione, il momento buono è finito. Naturalmente, in questo quadro evolutivo, possiamo trovare delle differenze fra una regione e l’altra. Se, in Europa ed in America del Nord, i rampolli della classe media qualificata possono in parte ancora contare sul sostegno dei genitori di fronte all’assenza di prospettive, altrove è l’inverso: ci sono giovani che mantengono la famiglia che affonda nella miseria. Non c’è da stupirsi che il simbolo della sollevazione araba sia stato l’autoimmolazione di un giovane laureato tunisino che, pur vendendo ortaggi, non riusciva più a guadagnarsi da vivere.

Nella storia moderna, la decadenza sociale della gioventù studentesca ha sempre costituito un fermento di eruzioni rivoluzionarie. Tuttavia, perché si producesse una reale rivoluzione sociale, è stato necessario, in primo luogo, un abbozzo teorico al passo con i tempi e, in secondo luogo, la messa in campo di un’organizzazione sociale che copra tutta la società, senza escludere le classi più basse. Si mostra a tale riguardo l’infinita mediocrità intellettuale, sociale ed organizzativa della generazione Facebook. In nessuno dei movimenti attuali troviamo traccia di un’idea nuova e rivoluzionaria. La classe media studentesca si comporta in gran parte in modo autoreferenziale e senza alcuna connessione sistematica con le classi più basse, e l’incontro non vincolante attraverso Internet rimane senza forza strutturante su scala sociale. Oltre le vuote frasi democratiche non c’è nulla. Ecco perché, ancora una volta, non si può parlare da nessuna parte di rivoluzione, nel momento in cui la si concepisce come cambiamento fondamentale sociale ed economico e non soltanto come sostituzione dei personaggi a capo dell’amministrazione della crisi con altri ancora peggio.
In assenza di una dialettica qualitativamente nuova tra riforme e rivoluzione, lo stesso approccio sindacale e limitato che tentano alcuni paesi arabi non va lontano. La redistribuzione delle rendite petrolifere e turistiche non si concretizza. In Europa e negli Stati Uniti non esiste alcuna esigenza sociale concreta di ampiezza apprezzabile. Per cui la rivolta viene strumentalizzata da forze molto differenti che fanno valere la loro tendenza verso la barbarie di fronte al vuoto ideale e organizzativo. Nei paesi arabi sono i fascisti religiosi islamici che vincono un’elezione dopo l’altra, facendo passare per modello di legittimazione la sterile democrazia formale, indifferenti ai contenuti di fondo. Hanno già in parte usurpato i sindacati, hanno imposto la loro politica della carità al posto dell’emancipazione sociale (ottenendo l’adesione delle classi più basse), hanno installato un terrorismo dalle virtù misogine e omofobe, hanno trasformato la propaganda antisemita contro Israele in una valvola di sfogo per il violento risentimento contro l’assenza di miglioramenti economici. Nell’Europa del Sud e dell’Est, è in ebollizione l’anacronistico fascismo nazionalista, il quale offre lo schermo su cui proiettare le pulsioni barbariche del vuoto concettuale e dell’impotenza sociale. I pogrom contro i Rom in Italia e in Ungheria, o il trattamento crudele che viene riservato in Grecia ai rifugiati e ai migranti parlano da sé. Il complemento ideale per questo è dato dal tono inequivocabilmente antisemita del movimento Occupy.

Israele dimostra la sua duplice natura per cui, da un lato, in quanto Stato ebraico, è diventato il nemico numero uno nella digestione ideologica della crisi a livello mondiale. Dall’altro, in quanto Stato capitalista, attraversa le medesime contraddizioni sociali di tutti gli altri Stati e produce il suo proprio fascismo religioso (un fenomeno comune a tutte le culture della post-modernità) sotto forma di un potenziale intrinseco di auto-distruzione. Rabbini eminenti evocano il rischio di talebanizzazione a causa di una minoranza di fanatici ultra-ortodossi che assomigliano ai loro nemici fratelli islamici come un uovo assomiglia a un altro. Unendo le loro forze a quelle dei coloni sciovinisti, minacciano di piombare Israele nella barbarie e di privarla della sua legittimità storica. Quanto al movimento sociale dei giovani israeliani contro l’amministrazione della crisi, esso somiglia sotto molti aspetti ai movimenti che conosce l’Europa. Data la situazione generale, sarebbe bene rivitalizzare una forza d’intervento di tipo sindacale, pur mantenendo la potenza militare, contro i nemici di Israele uniti che chiedono, in definitiva, la cancellazione dello stato israeliano dalle carte geografiche; ci potrà essere un margine di manovra all’interno di questo quadro solo chiudendo il rubinetto delle sovvenzioni agli ultra-religiosi e ai nazionalisti. La protesta sociale può di fatto invocare il progetto sionista fondamentale, che risale a Mose Hess, ma l’idea socialista, anche qui, non è che un’ombra del passato.

La cosa più impressionante è che, al di là delle differenze, la rivolta si verifica dappertutto “senza la sinistra”, come ha registrato con soddisfazione il Frankfurter Allgemeine Zeitung. Pertanto, anche ai politici da operetta post-operaista della globalizzazione, l’entusiasmo per questo soprassalto della moltitudine è andato di traverso. Ma al dunque, cosa avrebbe da dire oggi la corrente dell’attuale marxismo residuale o post-marxismo, ridotta un ruscelletto, ai contestatori che, indipendentemente dalla loro retorica, si sono messi in movimento? Se la mancanza di idee sul piano intellettuale e l’impotenza sul piano sociale della generazione Facebook sono un prodotto diretto della socializzazione di un capitalismo di crisi virtualizzato, anche i circoli di sinistra nelle sue varie correnti rappresentano solo un’ideologia posticcia della medesima situazione. Accontentarsi di ripresentare la propria comprensione teorica fatta di un medley decostruttivista non aprirà la pur minima prospettiva storica ai nuovi attori. Parimenti, non serve a niente trattare l’economia, riscoperta dalla forza delle circostanze, con griglie di interpretazione risalenti agli anni ‘70 (se non addirittura ancora prima) e incorporarle con il pensiero postmoderno, in una mistura indigeribile.

La teoria marxiana non è stata sviluppata ed estesa al di là di una lettura diventata ormai storicamente obsoleta; anzi, è stata spogliata della sua essenziale critica delle forme fondamentali del capitalismo, per poter così trasformare il marxismo tradizionale e striminzito del movimento operaio in un marxismo post-moderno, ancora più striminzito, ad uso della classe media. Invece di creare una nuova idea di rivoluzione e, così facendo, di fornire un contrappeso alla barbarie della crisi, questa sinistra accecata dal culturalismo è arrivata perfino a fantasticare il fascismo religioso islamico come una forza con la quale sarebbe possibile e legittimo fare un’alleanza (evviva la differenza!) e, inversamente, ad accogliere nel suo seno un impulso stupidamente antisemita, ostile ad Israele per principio; cosa che fa perfettamente il paio con la sepoltura della critica radicale dell’economia politica.
La protesta-senza-la-sinistra, e la post-sinistra che la guarda disorientata, hanno in comune che entrambe ritengono di poter legittimare il discorso democratico per mezzo del discorso esistenzialista. Quello che fa difetto ad entrambi, è la critica coscientemente antipolitica della sfera di regolazione capitalista; solo che la protesta è apolitica fino al midollo, mentre la sinistra continua a riscaldare la minestra del politicismo più stantio e nella crisi si risocialdemocratizza per coltivare la sua notoria impotenza. Come rovescio della stessa medaglia, vediamo dappertutto proliferare un “ribellismo” (in Francia, dipinto di post-situazionismo) ostile a qualsiasi pensiero teorico, che pretende di risparmiare la fatica di un ripensamento concettuale ed analitico della critica radicale, attribuendo alla falsa coscienza delle masse una partita verso nuove frontiere, in supplementi culturali entusiasti.

L’insurrezione che viene (2) è già là, ma il suo contenuto è tanto povero come la situazione in sé, che essa da nessun lato è capace di trascendere concettualmente. Senza teoria rivoluzionaria non c’è movimento rivoluzionario; bisogna reinventare questa vecchia massima in funzione della mutata situazione storica. E’ nello sviluppo e nella diffusione dei contenuti innovatori di riflessione, dentro l’intervento teorico stesso, che oggi si trova la risposta alla questione del “che fare?”: non è nelle pseudo-attività inventate, né nell’attività artigianale in piccoli mondi perfetti ed illusori che i movimenti di protesta si lasciano velocemente alle spalle. Tali movimenti continueranno a girare a vuoto finché non si trasformeranno attraverso il confronto con la teoria riformulata e, pertanto, attraverso l’intervento diretto sul proprio corso. Certo, c’è una comicità involontaria nel vedere questa sinistra che non ha mai seriamente rotto con gli schemi di pensiero vetero-marxista o post-moderno che l’hanno fatta naufragare, appellarsi ancora una volta, in un’assenza pressoché totale di sostanza teorica, alla “questione dell’organizzazione”. Appello che, già nel 1968, era rimasto perfettamente inascoltato.

Il rinnovamento teorico in ritardo non può vedere la falsa totalità che negativamente, in modo essenzialista e antirelativista. Chiunque si rifiuta di cogliere e di combattere la totalità capitalista ha già perso. La svolta culturalista e decostruttivista ha portato a un vicolo cieco perché ha fatto dimenticare la logica oggettiva del feticcio-capitale portando la critica ad annegare nel design delle particolarità. E’ importante dare battaglia a questa specie di universalismo che considera l’astrazione delle categorie come se fosse il nostro rapporto essenziale con il reale. Di fronte alle condizioni di crisi non si giocherà con la sua melodia né con la pancia né con i piedi.

Per venire a capo della paralisi che affligge la trascendenza rivoluzionaria, occorre senza dubbio uno sforzo teorico da parte dei numerosi gruppi dappertutto in tutto il mondo. Non sotto la forma della cacofonia borghese-pluralista, ma mirando risolutamente all’oggetto che ingloba e condiziona tutti i settori – il capitale mondiale – e combattendo per la verità teorica della nostra epoca. Dentro lo spazio di lingua tedesca e al di là, la costruzione teorica che consiste nella critica della dissociazione-valore formulata nel contesto della rivista EXIT! si sforza di dare un contributo. La critica dei rapporti umani assoggettati alla dissociazione-valore, rapporti dove il genere gioca anch’esso un ruolo determinante, ha dimostrato di non essere un’interpretazione contorta e desueta, un prodotto derivato del Capitale; questo perché cerca più che mai di afferrare il concetto di totalità – in sé stesso frammentario – del capitale. Non abbiamo scoperto la pietra filosofale; la nostra attenzione alla critica fondamentale della forma ed al contesto storico sono il risultato delle premesse di una trasformazione della teoria critica. Chi si lamenta, giustamente, del fatto che la costruzione teorica non sia stata ancora sviluppata a sufficienza, e concretizzata, non dovrebbe perdere di vista quelle che sono le condizioni. Senza sostegno materiale niente è possibile, e niente si ottiene gratuitamente: né la produzione teorica né la possibilità di riceverla in modo indipendente. Gli impazienti – ma non solo loro – sono invitati a sostenere EXIT! nel suo “nuotare contro corrente”.

Robert Kurz per la redazione di EXIT!, gennaio 2012

 

Tratto da ozioproduttivo.blogspot.it

This entry was posted in Corrente radicale. Bookmark the permalink.