Un obiettivo minimo desiderabile

Articolo uscito sul numero 16 del mensile anarchico Invece che cerca di riattualizzare alcune proposte organizzative di intervento sociale, elaborate nell’anarchismo di azione diretta italiano dei decenni scorsi, alla luce della recente esperienza di lotta contro gli sfratti in alcuni quartieri di Torino.

 

banlieues

 

“Ma poi la parola si logora. Usata per capirsi, non
suggerisce più l’immagine che pure continua a racchiudere
in maniera criptica, è stanca, non soccorre,
ha bisogno di essere soccorsa. Ancora una volta è del
grande cuore di chi agisce che essa ha bisogno(…)”

Certi scritti, che a una lettura iniziale possono apparirci fumosi e astratti, si caricano di senso quando li caliamo nel piano di consistenza di una lotta reale. Allora quello che sembrava lettera morta si sostanzia con precisione nell’immanente di situazioni concrete e problemi tangibili. Questo ci é accaduto con alcuni testi che, qualche decennio fa, affrontavano il rapporto tra un metodo insurrezionale e l’immediatezza delle lotte specifiche, formulando delle proposte organizzative per un intervento degli anarchici in queste ultime. Tutto uno spettro di concetti, dal nucleo di base all’organizzazione informale, ha ricominciato a prender corpo durante una lotta di resistenza agli sfratti che si è sviluppata nell’ultimo anno e mezzo a Torino, principalmente sul quartiere di Porta Palazzo.

L’esigenza di creare forme organizzative che comprendano sia esclusi che compagni, con una durata connessa alla temporalità della lotta stessa, quindi al conseguimento dei suoi obbiettivi specifici, ci hanno richiamato per esempio all’ipotesi del nucleo di base.

Opporsi agli ufficiali giudiziari e ai padroni, intessere contatti per organizzare picchetti e cercare un raccordo tra i solidali dei diversi sfratti, ci ha portato spontaneamente a un tipo, seppure abbozzato, di associazione informale e non permanente con altri sfruttati. Solo di riflesso e nel corso del fare sono emerse le analogie con le proposte teoriche a cui accennavamo, come dato pratico su cui dovremo approfondire l’analisi. È nella rete di rapporti dinamici e conoscenze all’interno del quartiere, nei legami quotidiani e negli incontri costruiti frequentando le stesse strade, che un tessuto di solidarietà si è reso possibile e ha alimentato l’evolversi della lotta stessa.

Occorrerà quindi fare qualche rapida delucidazione sul decorso che questa lotta ha assunto nel tempo.L’impulso ad affrontare questo ambito di intervento è venuto da relazioni molto dirette, di vicinato e familiarità personale tra qualche compagno e delle persone sotto sfratto, ma ci ha comunque posto di fronte a una scelta di prospettiva. Intraprendere un percorso del genere senza appiattirsi sui modelli già esistenti, e a noi fortemente estranei, dello sportello di lotta per la casa e del comitatoufficializzato, ci ha subito dato motivo di problematizzare i nostri metodi. La direttrice naturalmente emersa è individuare una linea di fuga sia dalle derive assistenziali che riproducono dinamiche di delega, sia dal fossilizzarci nello specialismo di un corpo esterno deputato a risolvere gli altrui problemi. Questi due vizi spesso si compenetrano e producono la medesima ripercussione: avallare la passività degli sfruttati senza innescare alcuna spinta ad autorganizzarsi. L’indirizzo che abbiamo voluto sperimentare è diametralmente opposto: procedere per tentativi ad allacciare un campo di intese e complicità tra e intorno alle persone sotto sfratto, per stimolare legami di mutuo appoggio capaci di funzionare autonomamente. Perciò siamo partiti dal piccolo: organizzare i picchetti per attendere l’ufficiale giudiziario e strappargli una proroga dello sfratto esecutivo, coinvolgere parenti e vicini di casa, far circolare la solidarietà tra chi si ritrova sotto sfratto invitando a una partecipazione ben distribuita nei vari picchetti. Tutto questo novero di buone intenzioni è comunque riuscito in parte, e in determinati casi, a concretarsi portando a una rete piuttosto vasta di contatti intorno alla questione della casa.
Questa rete, formata da solidali e da sfrattati, comincia a ritrovarsi periodicamente con scadenza mensile per discutere sul da farsi, sulle prossime iniziative anche nei dettagli più tecnici della preparazione, sull’eventualità di resistere all’intervento della polizia. Molto faticosamente e in modo tutt’altro che lineare questa serie di incombenze smette di essere demandata alle riunioni e discussioni tra compagni, quindi si forma un momento decisionale che è propriamente interno alla lotta. Tramite la riunione e ai suoi margini la trama dei contatti cresce, in molti si avvicinano per chiedere un supporto e il calendario degli sfratti da seguire diventa sempre più nutrito. Ma la crescita non è solo di carattere quantitativo: infatti questa estensione dei rapporti e dell’attività arriva presto a densificarsi in un punto di rottura. Il passaggio di occupare un palazzo per reagire collettivamente al problema dello sfratto balenava da tempo nella testa di molti di noi, ma diventa operativo solo con la proposta di alcuni per i quali la minaccia di finire per strada si sta facendo prossima. Ed ecco una nuova occupazione abitativa in C.so Novara, che funziona a sua volta come occasione di altri incontri, come luogo di passaggio in cui molti proletari del quartiere si fermano perché sono sotto sfratto o disposti a organizzarsi per occupare a loro volta. Il ventaglio di risvolti possibili si amplifica ed è ancora tutto da ragionare.

A questo punto mi pare dirimente considerare alcuni nodi e interrogativi che questa lotta ci offre in controluce, a partire da quello basilare: che cosa ci spinge in quanto anarchici a sostenere una lotta come questa, cioè una lotta intermedia contro un particolare attacco subito dagli esclusi? Che cosa hanno a che fare le scadenze minute, gli obiettivi parziali e i bisogni immediati che ne scandiscono il ritmo con la conflittualità permanente e i sogni distruttivi dei rivoluzionari? Questa domanda consente di fare delle chiarificazioni più generali e di affacciarsi direttamente su problemi teorici più ampi relativi al tema dell’organizzazione. Bisogna però sgombrare il campo da alcuni equivoci di fondo. Non crediamo che lo scopo di una lotta specifica, nonché della frequentazione degli sfruttati che in essa dovrebbe accadere, sia da porre in termini di coscienza. Che ci si prefigga di coinvolgere, nell’immediato o a breve scadenza, degli esclusi che lottano per modificare le proprie condizioni materiali di vita in un progetto globale di trasformazione dell’esistente è nel migliore dei casi un anelito idealistico da anime belle. In altre parole la pretesa, per lungo tempo proclamata e forse tutt’oggi covata tacitamente, di far diventare anarchici gli sfruttati è vana e da accantonare al principio. Per mille fattori, non saranno i nostri discorsi a contaminare la decisione di qualcuno di lottare, né a influenzare i conflitti che già sono in corso, ma la pluralità di microfratture che saremo in grado di determinare e approfondire come sfruttati tra altri sfruttati. Qui ci viene in soccorso il gioco di corrispondenze critiche con la parola scritta e le elaborazioni teoriche passate a cui facevamo riferimento. Quale finalità deve porsi un gruppo di compagni legati da rapporti di affinità, quindi dalla tendenza a darsi un progetto in comune, ampliarlo e verificarlo nello scontro di classe, dentro una lotta come quella contro gli sfratti di cui abbiamo detto? Crediamo un ruolo che essenzialmente si può definire di stimolo, cioè dare impulso a un metodo e a delle pratiche che ne radicalizzino la forza d’urto escludendo il più possibile i rischi di recupero, le tendenze alla mediazione e le involuzioni parasindacali. Senza troppe remore riguardo ai termini, si tratta di attivare lo sviluppo insurrezionale delle lotte specifiche. I punti fermi di questo metodo sono di conseguenza l’azione diretta, l’autorganizzazione, l’autonomia della lotta e la conflittualità permanente. Punti fermi che necessitano il supplemento di un luogo organizzativo adatto, di una struttura diversa da quella specifica dei compagni. L’assemblea che si è venuta a formare nel nostro percorso di resistenza per la casa ci pare assomigliare molto da vicino a quest’idea di struttura informale e non permanente, cioè quella che in altri tempi è stata definita nucleo autonomo di base.

Per definire più puntualmente questa forma, nonché la sua centralità nell’ipotesi dell’organizzazione informale, può essere utile citare un passo del libro Anarchismo insurrezionalista dove il concetto di nucleo di base viene esemplificato molto chiaramente: «sarebbe però un controsenso pensare di far diventare anarchica la gente suggerendo di entrare nei nostri gruppi allo scopo di affrontare la lotta in modo anarchico. (…) Dovendosi però creare delle strutture organizzative capaci di raggruppare gli esclusi in modo da cominciare gli attacchi contro la repressione, ecco la necessità di dare vita ai nuclei di base, che ovviamente possono prendere qualsiasi altro nome che indichi il concetto di autorganizzazione. Eccoci quindi al punto centrale del progetto insurrezionale: la costituzione dei nuclei autonomi di base. La loro caratteristica essenziale, visibile e comprensibile immediatamente, è che vi fanno parte anarchici e non anarchici». Va da sé che, se la separazione tra militanti e non è un ostacolo da superare, il ruolo dei compagni in una situazione di questo tipo rimane propulsivo e di indicazione senza per questo trasformarsi in un controllo. Spingere verso l’autonomia di una lotta non deve tradursi nel defilarsi ed esserne assenti, rinunciando a dare il proprio apporto pratico e progettuale, ma piuttosto nel lavorare a rendere meno determinante e indispensabile la propria presenza diretta, per quanto riguarda le decisioni ma anche i compiti organizzativi più concreti.
Sviluppare una dinamica assembleare che sia viva e orizzontale, riuscire ad affrontare insieme le soluzioni pratiche anche dettate da urgenze senza inibire la proposta e l’iniziativa spontanee, è un passaggio obbligato per non vedersi caricati proprio malgrado di un monopolio delle scelte tattiche. L’esempio di un’ occupazione abitativa a cui non partecipano compagni e affini è calzante, perché pone più ostacoli e difficoltà rispetto al modo di procedere, ma offre l’occasione per cominciare a fare in modo che gli interessati discutano e si accordino tra loro, allargando la presa di parola e la responsabilità attiva.

Un problema che decide sulla prospettiva futura di questa lotta è la possibilità di allargamento della rete formatasi intorno alla casa verso altri conflitti che attraversano lo stesso territorio e quartiere ma soprattutto, si pensi ai documenti e le retate, coinvolgono direttamente le stesse persone. Si può pensare a questo allargamento rispettando i limiti di una forma organizzativa basata su obiettivi specifici, cioè mantenendone la non permanenza senza scadere nella tendenza a una sintesi e polarizzazione delle lotte? A questo proposito le riflessioni passate sul nucleo di base sono piuttosto nette e perentorie: «molti si chiedono: se i nuclei funzionano anche come punti di raggruppamento, perché non lasciarli in vita per un altro possibile utilizzo futuro, diverso da quello in atto? La risposta è
ancora una volta legata al concetto di informalità. Ogni struttura che persiste nel tempo al di là dello scopo che l’ha vista nascere, se per sua condizione essenziale di esistenza aveva quello scopo e non una generica difesa ad ampio raggio di coloro che vi partecipano, si rattrappisce prima o poi in una struttura stabile che capovolge lo scopo iniziale in quello nuovo, e apparentemente legittimo, di un crescita quantitativa, di un irrobustimento per meglio raggiungere una molteplicità di scopi, tutti ugualmente interessanti, che non mancheranno di presentarsi all’orizzonte nebuloso degli esclusi». Credo che in questo caso si debba fare un confronto critico con una situazione profondamente mutata e un approccio all’iniziativa che si è altrettanto modificato nel tempo. Probabilmente il comparire di lotte sociali e territoriali in cui i compagni sono presenti in modo significativo, in cui riescono a radicarsi con un progetto, cambia l’angolo visuale sulla questione. A differenza che in altre lotte del passato, per esempio quelle sostenute dagli anarchici nella stagione mortifera degli anni Ottanta, le possibilità di raccordo con altri conflitti emergono spontaneamente senza che nessuna polarizzazione sia imposta.Quando occupo una palazzina insieme a degli immigrati, che possono conoscere i prigionieri del Cie o esserci stati essi stessi, a sfrattati che hanno anche il problema di procurarsi il cibo, l’allargamento a questioni molteplici non è uno sviluppo naturale? Quale risvolti possano presentarsi in questa direzione è incerto, ma l’idea di creare uno spazio, una fetta di città dove la densità di organizzazione degli esclusi sia abbastanza robusta da rendere possibile un’autodifesa efficace e ad ampio raggio, dove occupare le case, fermare le retate ed espropriare i supermercati siano risposte all’ordine del giorno alla molteplicità di problemi che si presentano all’orizzonte degli sfruttati… mi sembra un obiettivo minimo desiderabile.

This entry was posted in General. Bookmark the permalink.

One Response to Un obiettivo minimo desiderabile

  1. Pingback: AutoJazztione – Panem et muzzarellem | RadioLina – Radio Pirata – Napoli

Comments are closed.