Il sogno di mille cose – pensieri su un comunismo anarchico

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Ecco un articolo edito sul numero 18 del mensile anarchico Invece. Lo scritto, seppur con molti limiti ed approssimazioni, cerca di definire la possibilità del comunismo in rapporto al portato sovversivo della prospettiva anarchica. Si maneggiano  quindi due concetti annosamente travisati o scientemente distorti. Il comunismo, derubricato a sinonimo del marxismo nelle sue innumeri varianti, come vettore della transizione politica, del centralismo e dello stato. Niente di più falso, come è inutile dire che in nessuno stato ci sarà mai un grammo di comunismo. L’anarchia come pantano ideologico dove crogiolarsi nell’impotenza, rifiuto della dimensione collettiva e di organizzarsi, sacralizzazione acritica dell’iniziativa individuale. Ancora niente di più falso. Invece condizione di possibilità del comunismo, il suo semplicie volgersi in pratica distruttiva, in attacco alle strutture di potere.Due termini che sono due angolature del medesimo processo di autotrasformazione, e che mai andrebbero disgiunte. Buona lettura


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Comunismo significa pessimismo su tutta la linea. Pessimismo assoluto. Sfiducia nella sorte della letteratura, sfiducia nella sorte della libertà, sfiducia nella sorte dell’umanità europea, ma soprattutto sfiducia, sfiducia e sfiducia verso ogni forma di intesa: tra le classi, tra i popoli, tra i singoli.(…)Bisogna organizzare il pessimismo.”

W.Benjamin

 

Questo frammento ha il pregio di evocare una visione rivoluzionaria slegata dalle aspettative fiabesche di uno sviluppo migliorativo perpetuo dell’umanità, dal sol dell’avvenire, da una concezione della storia cumulativa, che ci traghetta con un moto lineare, omogeneo e vuoto oltre lo stadio della barbarie e dell’ingiustizia. Piuttosto dipinge lo spettro di una rivoluzione nel contesto potenzialmente catastrofico che abbiamo sotto gli occhi, che parte dalla coscienza di tutti i rischi in gioco, dall’idea di ciò che succederebbe se il nemico di sempre continuasse a vincere.

Il presente ci pone di fronte ad uno scenario di tensioni, conflitti aperti o incipienti i cui risvolti non offrono alcuna garanzia. Siamo nel campo delle banali evidenze. Potremmo chiamare questo scenario guerra civile, sia intendendo un burrascoso sviluppo dello stato attuale delle cose, sia come sua mera descrizione. Guardando ad un insieme di accadimenti e processi su una scala temporale tutto sommato vicina, l’utilizzo di questa categoria risulta forse meno ardito. Proviamo ad elencarne qualcuno: i massacri nei Balcani e le sommosse delle periferie londinesi, le banlieues che divampano e un integralista islamico che a Tolosa spara sugli studenti di una scuola ebraica, la sempre più sistematica sperimentazione dei dispositivi militari come arma contro-insurrezionale preventiva nei contesti urbani e la riorganizzazione delle bande neofasciste in Grecia e un po’ ovunque. Questo novero comprende degli indicatori dissonanti ma chiari, elementi non solo dissimili ma forse di segno contrastante che evocano due possibili alle porte, due strade a senso unico e due posizioni di quella che è appunto una guerra.

«È così che, da vent’anni a questa parte, il pianeta assomiglia sempre di più ad un campo profughi. Si fugge dai conflitti o dal deserto, dalla povertà o dalla dittatura; si fugge da un mondo che non si riconosce più. I vecchi modi di vivere, di stare assieme, sono irrimediabilmente scomparsi e nulla si intravede all’orizzonte. Rimangono solo l’odio e la paura, che si accumulano ogni giorno di più e che stentano a trovare un obiettivo, un nemico da combattere. È per questo che – dove larvata dove dichiarata –  la guerra civile era già scoppiata, ovunque».

La guerra civile, parafrasando le righe di un anarchico che già anni addietro ne coglieva la centralità, non va temuta.Si tratta piuttosto, per i rivoluzionari, di prendervi parte. Per fare questo bisogna individuare il campo di battaglia…ma attorno a cosa si combatte la guerra di cui parliamo? Di cosa si alimentano i recuperatori dell’odio sociale, religiosi o politici che siano, con quali pulsioni nutrono l’ordito delle loro campagne fratricide? La piega catastrofica che assume giorno dopo giorno la civiltà del capitale, un deserto planetario dove la minoranza libera dei cittadini è attorniata da masse di spossessati ridotti ad una miseria sempre più parossistica, fa strame delle residue forme di vita comune con cui gli sfruttati si identificavano e a cui affidavano la soddisfazione dei propri bisogni. Di fronte a questa condizione, che segna il tracollo delle opzioni socialdemocratiche e di mediazione sociale, la reviviscenza di forze reazionarie basa il suo agire proprio sulla rifondazione artificiale di comunità, su territori immaginari e concreti in cui riconoscersi, su mense e luoghi di incontro, strutture di assistenza sociale e legami di appartenenza. Da Alba Dorata all’Islam più radicale il gioco è lo stesso, sporco quanto efficace. Questa descrizione può apparire molto limitativa, in quanto sembra derubricare gli agenti in campo alle forze reazionarie e a quelle rivoluzionarie. Certamente anche solo le possibili frazioni organizzate in gioco sono molto più varie, che si parli di bande mafiose o di strutture politiche, tra cui non è trascurabile un fronte della sinistra che ritorna ad affacciarsi con il logos di una critica illuminista ai vizi del modello sociale esistente ed ambisce a ricomporre la piccola borghesia planetaria. Ma soprattutto, in un contesto di guerra civile caratterizzato dal divenire irrazionale dei conflitti, da un propagarsi della violenza diffusa sempre meno mediata e regolabile, sono anche settori del proletariato stesso a poter prendere spontaneamente l’iniziativa non nel senso da noi voluto, ma in quello della sopraffazione e della vendetta, non per forza politicamente codificate. Gli schieramenti possibili sono molto frastagliati.

Comunque è sul terreno suddetto, quello dell’autonomia materiale e di un comune nel quale incontrarsi, che vanno situate anche le possibilità della rivoluzione. L’alternativa è secca. Saremmo tentati di denominare uno dei suoi poli fascismo, intendendo appunto quel movimento di risposta e difesa della macchina capitalista che disattiva il precipitare rivoluzionario degli eventi invertendone di senso le forze. Dato però che i conflitti tra le classi non si ripresentano sotto le spoglie del sempre uguale, il termine più comprensivo di reazione è forse preferibile. Tutto ciò che, in una situazione esplosiva, si muove come rafforzamento delle tecniche del campo nemico, dalle strade alle piazze e agli stadi, appartiene al terreno della controrivoluzione preventiva. La ridefinizione dei dispositivi di assoggettamento, come armamentario legislativo e poliziesco volto a classificare e colpire i comportamenti antisociali e le minoranze sovversive che si organizzano, non sono certo un affare che riguarda noi in prim’ordine. Se determinati meccanismi giudiziari vengono talvolta sperimentati sulla pelle dei rivoluzionari, denunciano delle incrinature del potere che alludono soprattutto allo spettro di sommovimenti futuri. A prescindere dal peso specifico dei raggruppamenti radicali. Dall’altra parte, confliggendo con un’inveterata abitudine di mistificazione semantica – affermatasi in un secolo di prese del potere e transizioni interminabili quanto sanguinose – si dovrà parlare della questione comunista, ovvero del comunismo anarchico nella sua immediatezza. Su questo punto vale la pena dire che chiunque, alla luce dei fatti e delle esperienze rivoluzionarie passate, pretenda di separare autonomia materiale ed attacco del comando capitalista mostra in realtà di non volere né l’una né l’altro. È infatti proprio sulla profondità del nodo tra cooperazione immediata e sabotaggio, tra il costituirsi in forza collettiva e sovvertire le concrezioni del dominio, che si dispiega la guerra tra questione comunista e controrivoluzione. Comunismo significa infatti impedire che qualcosa sia isolabile dalla totalità del vissuto come rapporto di produzione. Astrarre una posizione rivoluzionaria dal modo in cui l’esistenza si organizza insieme e da subito, da come mangiamo, ci vestiamo, esperiamo i nostri affetti e li rendiamo offensivi, lascia spazio a due possibili derive. Da un lato c’è il cielo della politica, dove il progetto di trasformazione è separato dalla sfera di ciò che è desiderabile ora, dall’altro il catalogo di indotti in cui autogestire l’alienazione quotidiana fingendo che la guerra in corso non ci riguardi. Se, per assurdo, aspirassimo davvero a fare una rivoluzione, il nostro compito prenderebbe corpo nello scarto tra questi due scivolamenti. Articolare ciò che succede dietro una barricata, i rapporti che si costruiscono dentro un’occupazione, in un quartiere, l’organizzazione della forza per una  distruzione anarchica delle strutture del potere, è la sola occasione in cui possiamo prendere parte alla guerra civile al fianco della nostra classe.

Ciò che può accadere altrimenti ci colpisce con lo strascico di orrori che sono seguiti ad ogni sollevazione fallita.

«Anarchia e comunismo, come forza e materia, sono due termini che dovrebbero formare un termine solo, perché essi esprimono collettivamente un solo concetto».

Che il comunismo in questione faccia a meno sia del marxismo che di Marx è a questo punto scontato. Sarebbe però noioso avvalorare l’affermazione rievocando un repertorio di letture che gli anarchici, da Kropotkin a Cafiero e Malatesta, hanno dato del concetto di comunismo. Se parliamo di comunismo anarchico non è infatti per alludere ad un “comunismo degli anarchici”, ad un qualche patrimonio ideologico da rispolverare per fregiarsi dell’ennesima teoria rivoluzionaria pura. Piuttosto raccogliamo come uno scrigno a cui attingere il lascito delle epoche passate. Se ci inseriamo in un solco ben definito non per questo vogliamo aderire alle scorciatoie dell’ideologia. L’uso del termine anarchico richiama invece il cuore della nostra prospettiva, si riferisce alla sua valenza etimologica, alla rottura irriducibile con le mediazioni, gli inganni dialettici della politica e lo scollamento tra mezzi e fini. Guardando alle vicende del secolo scorso,  al fallimento nefasto di tutte le ipotesi politiche di cambiamento rivoluzionario e allo sprofondamento del socialismo in ogni sua variante, l’attualità di una prospettiva anarchica si ripropone in tutta la sua materialità e senza bisogno di stampelle. L’orizzonte è un comunismo senza transizione, preso nel suo divenire non come cambiamento dei rapporti di produzione ma come loro fine, non come creazione politica ma come processo in cui ciò che abbiamo di più comune prende respiro e il gesto immediato della cospirazione destituisce l’economia. Questo comunismo è oggi attacco alla proprietà che rompe la disposizione in cui le nostre vite sono spezzate. È attacco alla polizia a partire dall’affermazione di tutto ciò che essa impedisce, dal libero gioco delle vere differenze che intercorrono tra i singoli. Il sogno di mille cose che si realizza nell’insurrezione.    

«Questo piccolo gruppo di uomini mi ha dato la sola idea che avrei di una comunità umana: non guariamo dal comunismo quando l’abbiamo vissuto…»

 

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