Tiqqun – Come fare

Black-Bloc 1

Don’t’t know what I want,

but I know how to get it.

SEX PISTOLS

Anarchy in the UK

I

VENT’ANNI. Vent’anni di controrivoluzione. Di controrivoluzione preventiva.
In Italia.
E altrove.
Vent’anni di un sonno irto di sbarre, popolato di guardie. Di un sonno dei corpi
imposto dal coprifuoco.
Vent’anni. Il passato non passa. Perché
la guerra continua. Si ramifica. Si prolunga.
In un reticolato mondiale di dispositivi locali.
In un’inedita calibrazione
delle soggettività. In una nuova pace di
superficie.
Una pace armata
ben fatta per coprire lo svolgersi di
un’impercettibile
guerra civile.
Vent’anni fa, c’era
il punk, il movimento del ’77, l’area dell’Autonomia,
gli indiani metropolitani e la guerriglia
diffusa.
Di colpo sorgeva, come uscito da qualche regione sotterranea della civiltà,
tutto un contro-mondo di soggettività
che non volevano più consumare, che
non volevano più produrre,
che non volevano neanche più essere
delle soggettività.
La rivoluzione era molecolare, la controrivoluzione non lo fu da meno.
Si dispose in modo offensivo,
poi durevole,
tutta una complessa macchina per neutralizzare ciò che è portatore d’intensità.
Una macchina per smorzare tutto quel
che potrebbe esplodere.
Tutti gli individui a rischio,
i corpi indocili,
le aggregazioni umane autonome.
Poi ci furono vent’anni di stupidità, volgarità, isolamento e desolazione.
Come fare?
Alzarsi. Alzare la testa. Per scelta o per
necessità. Poco importa, veramente,
oramai.
Guardarsi negli occhi e dirsi che si ricomincia. Che tutti lo sappiano, al più presto.
Si ricomincia.
Finita la resistenza passiva, l’esilio interiore, il conflitto per sottrazione, la sopravvivenza. Si ricomincia. In vent’anni,
abbiamo avuto il tempo di vedere. Abbiamo capito. La demokrazia per tutti, la
lotta «contro il terrorismo», le stragi di
Stato, la ristrutturazione capitalista e la
sua Grande Opera di epurazione sociale,
tramite selezione,
precarizzazione,
normalizzazione,
«modernizzazione».
Abbiamo visto, abbiamo capito. I metodi e i
fini. Il destino che ci riservano. Quello che ci
negano. Lo stato d’eccezione. Le leggi che
pongono la polizia, l’amministrazione, la magistratura al di sopra delle leggi. La giuridicizzazione, la psichiatrizzazione, la
medicalizzazione di tutto quel che esce dalla
norma. Di tutto ciò che sfugge.
Abbiamo visto. Abbiamo capito. I metodi e i fini.
Quando il potere stabilisce in tempo
reale la sua legittimità,
quando la sua violenza diventa preventiva
e il suo diritto è un «diritto d’ingerenza»,
allora non serve più avere ragione.
Avere ragione contro di esso.
Occorre essere più forti o più astuti. È per
questo,
anche per questo,
che ricominciamo.
Ricominciare non è mai ricominciare
qualcosa. Né riprendere una cosa al
punto in cui la si era lasciata. Quel
che si ricomincia è sempre altro. È sempre inaudito.
Perché non è il passato che ci sprona,
ma precisamente quel che in esso
non è
avvenuto.
E perché così siamo noi stessi, che allora
ricominciamo.
Ricominciare vuol dire: uscire dalla sospensione. Ristabilire il contatto tra i nostri divenire.
Partire
di nuovo,
da dove siamo,
ora.
Per esempio, ci sono dei tiri
che non ci giocheranno più.
La storia della «società». Da trasformare.
Da distruggere. Da rendere migliore.
La storia del patto sociale. Che alcuni
romperebbero, mentre altri possono fingere di «restaurare».
Questi tiri, non ce li giocheranno più.
Bisogna essere un membro militante
della piccola borghesia planetaria,
un vero cittadino,
per non accorgersi che la società non
esiste più.
Che è implosa. Che è solo un pretesto
per il terrore di quelli che dicono di
rap/presentarla.
Che si è assentata.
Tutto quel che è sociale, ci è divenuto
estraneo.
Ci consideriamo assolutamente svincolati
da ogni obbligo, da ogni prerogativa, da
ogni appartenenza
sociale.
«La società»
è il nome spesso dato all’Irreparabile
da coloro che volevano anche farne
l’Inassumibile.
Chi rifiuta quest’inganno dovrà fare
un passo a lato.
Operare
un leggero spostamento
rispetto alla logica comune
dell’Impero e della sua contestazione,
quella della mobilitazione,
e della loro comune temporalità,
quella dell’urgenza.
Ricominciare vuol dire: abitare questo
scarto. Assumere la schizofrenia capitalista nel senso di una crescente
facoltà di desoggettivazione.
Disertare conservando le armi.
Fuggire impercettibilmente.
Ricominciare vuol dire: unirsi alla secessione sociale, all’opacità, entrare
in smobilitazione,
sottraendo oggi a questa o a quella rete
imperiale di produzione-consumo i mezzi
per vivere e lottare, in modo da
distruggerla
al momento stabilito.
Noi parliamo di una nuova guerra,
di una nuova guerra partigiana. Senza
fronte né uniformi, senza esercito né battaglie decisive.
Una guerra i cui focolai si sviluppano lontano dai flussi mercantili, benché siano
collegati a essi.
Noi parliamo di una guerra latente. Che
possiede il tempo.
Di una guerra di posizione.
Che si fa là dove siamo.
In nome di nessuno.
In nome della nostra stessa esistenza,
che non ha nome.
Operare questo leggero spostamento.
Non temere più il proprio tempo.
«Non temere il proprio tempo è una questione di spazio».
Nello squat. Nell’orgia. Nello scontro. Nel
treno o nel villaggio occupato. Alla ricerca di un introvabile free party in
mezzo a degli sconosciuti. Io faccio
l’esperienza
di questo leggero spostamento. L’esperienza
della mia desoggettivazione. Io divento
una singolarità qualunque. Un gioco s’insinua tra la mia presenza e tutto l’apparato di qualità che mi sono
ordinariamente attribuite.
Negli occhi di un essere che, nel presente,
vuole stimarmi per quello che sono, assaporo la delusione, la sua delusione a vedermi diventato così comune, così perfettamente accessibile. Nei gesti di un
altro c’è un’inattesa complicità.
Tutto quello che mi isola come soggetto,
come corpo dotato di una configurazione
pubblica di attributi, sento che si scioglie.
I corpi si sfrangiano ai bordi. Ai loro confini, si fanno indistinti. Quartiere dopo
quartiere, il qualunque mina l’equivalenza. E io raggiungo una nudità nuova,
una nudità impropria, come vestita
d’amore.
Si evade mai soli dalla prigione dell’Io?
Nello squat. Nell’orgia. Nello scontro. Nel
treno o nel villaggio occupato. Noi ci ritroviamo.
Ci ritroviamo
tra singolarità qualunque. Cioè
non sulla base di una comune appartenenza,
ma di una comune presenza.
È questo
il nostro bisogno di comunismo. Il bisogno
di spazi notturni, in cui possiamo
ritrovarci
al di là
dei nostri predicati.
Al di là della tirannia del riconoscimento.
Che impone il ri/conoscimento come distanza finale tra i corpi.
Come ineluttabile separazione.
Tutto ciò che mi si riconosce – il fidanzato, la famiglia, l’ambiente, l’impresa,
lo Stato, l’opinione – è grazie a questo
che credono di tenermi.
Con il richiamo costante a quello che
sono, alle mie qualità, vorrebbero
astrarmi da ogni situazione, vorrebbero
estorcermi in ogni circostanza una fedeltà a me stessa che è una fedeltà ai
miei predicati.
Ci si aspetta da me che mi comporti da
uomo, impiegato, disoccupato, madre,
militante o con filosofia.
Si vuole contenere nei limiti di un’identità, il corso imprevedibile dei miei divenire.
Mi si vuole convertire alla religione di
una coerenza
che hanno scelto per me.
Più sono riconosciuta, più i miei gesti
sono impacciati, interiormente impacciati. Eccomi presa nelle maglie serrate
del nuovo potere. Tra le maglie impalpabili della nuova polizia: LA POLIZIA IMPERIALE DELLE QUALITÀ.
C’è tutta una rete di dispositivi in cui mi
muovo per «integrarmi», e che m’incorporano queste qualità.
Tutto un piccolo sistema di schedature,
identificazioni e sorveglianze reciproche.
Tutta una diffusa prescrizione dell’assenza.
Tutto un apparato di controllo comporta/mentale, che mira al panottismo,
alla privatizzazione trasparenziale,
all’atomizzazione.
E nel quale io mi dibatto.
Ho bisogno di divenire anonimo. Per essere presente.
Più sono anonimo, più sono presente.
Ho bisogno di zone d’indistinzione
per accedere al Comune.
Per non riconoscermi più nel mio nome.
Per non sentire nel mio nome soltanto
la voce che lo chiama.
Per far consistere il come degli esseri,
non in quello che sono, ma nel come
sono ciò che sono. La loro forma-di-vita.
Ho bisogno di zone di opacità dove gli
attributi,
anche criminali, anche geniali,
non separino più i corpi.
Divenire qualunque. Divenire una singolarità qualunque, non ci è dato.
Sempre possibile, ma mai dato.
C’è una politica della singolarità qualunque.
Che consiste nello strappare all’Impero
le condizioni e i mezzi,
anche interstiziali,
di sperimentarsi come tale.
È una politica, perché suppone una capacità di scontro
e una nuova aggregazione umana che
le corrisponda.
Politica della singolarità qualunque:
creare degli spazi in cui nessun atto sia
più assegnabile ad un corpo dato.
In cui i corpi ritrovino l’attitudine al gesto
che la sapiente distribuzione dei dispositivi metropolitani – computer, automobili,
scuole, videocamere, cellulari, palestre,
ospedali, televisori, cinema, ecc. – gli ha
rubato.
Riconoscendoli.
Immobilizzandoli.
Facendoli girare a vuoto.
Facendo esistere la testa separatamente
dal corpo.
Politica della singolarità qualunque.
Un divenire-qualunque è più rivoluzionario di ogni essere-qualunque.
Liberare spazi, ci libera cento volte più di
qualsiasi «spazio liberato».
Io godo più nel mettere in circolazione la
mia potenza, che nel mettere in atto un
potere.
La politica della singolarità qualunque risiede nell’offensiva. Nelle circostanze, i
momenti e i luoghi in cui saranno strappati
le circostanze, i momenti e i luoghi
di un tale anonimato,
di una sosta temporanea in stato di semplicità,
ossia l’occasione per estrarre da tutte le
nostre forme la pura adeguatezza alla
presenza,
l’occasione per esserci, infine.

II
COME FARE? Non Che fare? Ma Come
fare? La questione dei mezzi.
Non quella dei fini, degli obiettivi,
di quel che c’è da fare, strategicamente, in assoluto.
Ma quella invece di ciò che si può fare,
tatticamente, nella situazione,
e dell’acquisizione di questa potenza.
Come fare? Come disertare? Come funziona? Come coniugare le mie ferite e il
comunismo? Come restare in guerra
senza perdere la tenerezza?
La questione è tecnica. Non un problema. I problemi sono redditizi.
Nutrono gli esperti.
Una questione.
Tecnica. Che si sdoppia in questione
delle tecniche di trasmissione di queste
tecniche.
Come fare? Il risultato contraddice sempre il fine. Perché porre un fine è ancora
un mezzo,
un altro mezzo.
Che fare? Babeuf, Černiševskij, Lenin. La
virilità classica reclama un analgesico,
un miraggio, qualcosa. Un mezzo per
ignorarsi ancora un po’. Come presenza.
Come forma-di-vita. Come essere in situazione, dotato d’inclinazioni.
D’inclinazioni determinate.
Che fare? Il volontarismo come ultimo nichilismo. Come nichilismo proprio
della virilità classica.
Che fare? La risposta è semplice: sottomettersi ancora una volta alla logica
della mobilitazione, alla temporalità
dell’urgenza. Col pretesto della ribellione. Porre dei fini, delle parole. Tendere
verso il loro compimento. Il compimento
delle parole. Intanto, rimandare l’esistenza a più tardi. Mettersi tra parentesi.
Abitare l’eccezione di sé. A lato del
tempo. Che passa. Che non passa. Che
si ferma. Fino a… Fino al prossimo. Fine.
Che fare? Detto altrimenti: inutile vivere.
Tutto quel che voi non avete vissuto, la
Storia ve lo renderà.
Che fare? È l’oblio di sé a proiettarsi sul
mondo.
Come oblio del mondo.
Come fare? La questione del come. Non
di ciò che un essere, un gesto, una cosa,
ma di come è ciò che è. Di come i
suoi predicati si rapportino a lui.
E lui ad essi.
Lasciar essere. Lasciar essere il divario tra
il soggetto e i suoi predicati. L’abisso
della presenza. Un uomo non è «un
uomo». «Cavallo bianco» non è
«cavallo».
La questione del come L’attenzione al
come. L’attenzione al modo in cui una
donna è e non è
una donna – e ce ne vogliono di dispositivi per fare di un essere di sesso femminile «una donna», o di un uomo dalla
pelle nera «un nero».
L’attenzione alla differenza etica. All’elemento etico. Alle irriducibilità che lo attraversano. Quel che
succede tra i corpi
durante un’occupazione è più interessante dell’occupazione stessa.
Come fare? vuol dire che lo scontro militare con l’Impero dev’essere subordinato
all’intensificazione delle relazioni all’interno del nostro partito. Che la politica è
soltanto un certo grado d’intensità in
seno all’elemento etico. Che la guerra rivoluzionaria non va più confusa con la
sua rappresentazione: ossia il momento
bruto del combattimento.
La questione del come. Facendo attenzione all’accadere delle cose, degli esseri. Al loro avvento. All’ostinata e
silenziosa pregnanza della loro temporalità
sotto l’annientamento planetario di tutte
le temporalità
da parte dell’urgenza.
Il Che fare? come ignoranza programmatica di tutto questo. Come formula
inaugurale del disamore indaffarato.
Il Che fare? ritorna. Da qualche anno.
Più dalla metà degli anni Novanta, che
da Seattle. Un revival della critica fa
finta di affrontare l’Impero
con gli slogan, le ricette degli anni Sessanta. Solo che stavolta si simula.
Si simula l’innocenza, l’indignazione, la
buona coscienza e il bisogno di società.
Si rimette in circolazione tutta la vecchia
gamma degli affetti socialdemocratici.
Degli affetti cristiani. E di nuovo, ci sono
le manifestazioni. Le manifestazioni ammazza-desiderio. In cui non succede
niente. E che manifestano soltanto
l’assenza collettiva.
Per sempre.
Per quelli che hanno nostalgia di Woodstock, della gangia, del maggio ’68 e
della militanza, ci sono i controvertici.
Ci hanno ricostruito lo scenario, ma
senza il possibile.
Ecco cosa ci comanda oggi il Che fare?:
andare all’altro capo del mondo a contestare la merce globale
per tornare, dopo un gran bagno di unanimismo e separazione mediatizzata,
a sottomettersi alla merce locale.
Al ritorno, con la foto sul giornale… Tutti
soli ma comunque insieme!… C’era una
volta… Che gioventù!…
Peccato per i pochi corpi vivi perdutivisi,
che hanno cercato invano uno spazio
per il loro desiderio.
Ritornano un po’ più annoiati. Un po’ più
vuoti. Ridotti.
Di controvertice in controvertice, finiranno per capire. Oppure no.
Non si contesta l’Impero per la sua gestione. Non si critica l’Impero.
Ci si oppone alle sue forze.
Là dove si è.
Dare il proprio parere su questa o quella
alternativa, andare là dove si è chiamati,
non ha più senso. Non c’è nessun progetto
globale alternativo al progetto globale
dell’Impero. Perché non c’è un progetto
globale dell’Impero. C’è una gestione imperiale. Ogni gestione è cattiva. Quelli
che reclamano un’altra società farebbero
bene col cominciare a vedere che non ce
ne sono più. E forse allora smetterebbero
di essere degli apprendisti gestori. Dei cittadini. Dei cittadini indignati.
L’ordine globale non può essere considerato il nemico. Non direttamente.
Perché l’ordine globale non ha luogo. Al
contrario. È piuttosto l’ordine dei nonluoghi.
La sua perfezione non sta nel fatto di essere globale, ma di essere globalmente
locale. L’ordine globale è la congiura
di ogni evento in quanto occupazione
compiuta, autoritaria del locale. Non ci si
oppone all’ordine globale se non localmente. Tramite l’estensione delle zone
d’ombra sulle carte dell’Impero. Tramite
la loro progressiva messa in contatto.
Sotterranea.
La politica che viene. Politica dell’insurrezione locale contro la gestione globale. Della presenza riguadagnata
sull’assenza di sé. Sull’estraneità cittadina, imperiale.
Riguadagnata col furto, la frode, il crimine,
l’amicizia, l’inimicizia, la cospirazione.
Tramite l’elaborazione di modi di vita
che siano anche
dei modi di lotta.
Politica dell’aver luogo.
L’Impero non ha luogo. Amministra l’assenza facendo calare ovunque la minaccia palpabile dell’intervento
poliziesco. Chi cerca nell’Impero un avversario col quale misurarsi troverà l’annientamento preventivo.
Essere percepiti, oramai, è essere vinti.
Imparare a diventare indiscernibili. A
confonderci. Riprendere il gusto
per l’anonimato,
per la promiscuità.
Rinunciare alla distinzione
per contrastare la repressione:
giungere allo scontro nelle condizioni più
favorevoli.
Diventare astuti. Diventare impietosi. E
per questo
diventare qualunque.
Come fare? è la domanda dei bambini
perduti. Quelli cui non è stato detto. Quelli
che hanno gesti insicuri. Ai quali niente è
stato regalato. Quelli la cui creaturalità, la
cui erranza, non smette di tradirsi.
La rivolta che viene è la rivolta dei bambini perduti.
Il filo della trasmissione storica è stato reciso. Anche la tradizione rivoluzionaria ci
lascia orfani. Soprattutto il movimento
operaio. Il movimento operaio che si è
rovesciato in uno strumento d’integrazione superiore al Processo. Al nuovo Processo cibernetico di valorizzazione sociale.
Nel 1978, è stato in suo nome che il Pci, il
«partito dalle mani pulite», lanciava la
caccia
all’autonomo.
In nome della sua concezione classista
del proletariato,
della sua mistica della società,
del rispetto del lavoro, dell’utile e della
decenza.
In nome della difesa delle «conquiste democratiche» e dello Stato di diritto.
Il movimento operaio sopravvissuto all’operaismo.
Unica critica esistente del capitalismo
dal punto di vista della Mobilitazione Totale.
Dottrina spaventosa e paradossale,
che avrà salvato l’oggettivismo marxista
parlando solo di «soggettività».
Che avrà portato ad un raffinamento
inedito della negazione del come.
Il riassorbimento del gesto nel suo prodotto.
L’orticaria del futuro anteriore.
All’insegna del: ogni cosa sarà stata.
La critica è diventata vana. La critica è
diventata vana perché equivale ad
un’assenza. Quanto all’ordine dominante, tutti sanno come comportarsi. Noi
non abbiamo più bisogno di teoria critica. Non abbiamo più bisogno di professori. La critica lavora ormai per il
dominio. Anche la critica del dominio.
Riproduce l’assenza. Ci parla da dove
non siamo. Ci trascina altrove. Ci consuma. È vigliacca. E si tiene ben al riparo
quando ci porta alla carneficina.
Segretamente innamorata del suo oggetto, non cessa di mentirci.
Per questo gli idilli tra proletari e intellettuali impegnati sono così brevi.
Questi matrimoni di ragione in cui non si ha
la stessa idea del piacere o della libertà.
Abbiamo bisogno di nuove cartografie,
non di nuove critiche.
E non di cartografie dell’Impero, ma di
linee di fuga per uscirne.
Come fare? Abbiamo bisogno di mappe.
Non di mappe di ciò che è fuori dalle
mappe. Ma di mappe di navigazione. Di
carte marittime. Di strumenti d’orientamento. Che non cerchino di dire, di rappresentare quel che c’è ll’interno dei
differenti arcipelaghi della diserzione,
ma ci indichino come raggiungerli.
Dei portolani.

III

È martedì 17 settembre 1996, poco prima
dell’alba. Il ROS (Raggruppamento operativo speciale) coordina in tutta la penisola l’arresto
di 70 anarchici italiani.
Si tratta di metter fine a 15 anni di inchieste
infruttuose sugli anarchici insurrezionalisti.
La tecnica è nota: fabbricare un «pentito», fargli denunciare l’esistenza di una
vasta organizzazione sovversiva gerarchizzata.
Poi, sulla base di questa chimerica creazione, accusare di farne parte tutti quelli
che si vuole neutralizzare.
Ancora una volta, prosciugare il mare
per prendere i pesci.
Anche quando si tratta solo di uno stagno minuscolo.
E di qualche pescetto.
Una «nota informativa di servizio» sulla
faccenda
è però sfuggita al ROS.
Vi viene esposta la sua strategia.
Fondato sui principi del generale Dalla
Chiesa, il Ros è il tipico servizio imperiale
di contro-insurrezione.
Lavora sulla popolazione.
Là dove si è prodotta un’intensità, là
dove succede qualcosa, è il french doctor della situazione. Colui che dispone,
sotto la copertura della profilassi,
i cordoni sanitari che mirano a isolare
il contagio.
Ciò che si teme lo si dice. In questo documento lo si scrive. Ciò che si teme è la
«palude dell’anonimità politica».
L’Impero ha paura.
Ha paura che noi diveniamo qualunque.
Un ambiente delimitato,
un’organizzazione combattente. Non li
teme. Ma una costellazione espansiva
di squat, fattorie autogestite, abitazioni
collettive, assembramenti fini a se
stessi, radio, tecniche e idee. L’insieme
legato da un’intensa circolazione dei
corpi, e degli affetti tra i corpi. È un’altra cosa.
La cospirazione dei corpi. Non degli spiriti critici, ma delle corporeità critiche.
Ecco cosa teme l’Impero. Ecco
ciò che lentamente avviene,
con l’accrescimento dei flussi
della defezione sociale.
C’è un’opacità inerente al contatto dei
corpi. E che non è compatibile con il
regno imperiale di una luce che
illumina le cose
solo per disintegrarle.
Le Zone di Opacità Offensive non sono
da creare.
Sono già qui, in tutti quei rapporti nei
quali si ha una vera
messa in gioco dei corpi.
Quel che serve, è accettare il fatto che
noi siamo parte di quest’opacità. E dotarsi dei mezzi per estenderla,
per difenderla.
Ovunque si giunga ad eludere i dispositivi imperiali, a rovinare tutto il lavoro
quotidiano del Biopotere e dello Spettacolo mirante ad estrarre dalla popolazione una frazione di cittadini. Per isolare
nuovi untorelli. In questa riconquistata indistinzione
si forma spontaneamente
un tessuto etico autonomo,
un piano di consistenza
secessionista.
I corpi si aggregano. Riprendono fiato.
Cospirano.
Quante zone siano votate a soccombere
militarmente poco importa. Ciò che importa è creare
ogni volta una via di fuga abbastanza sicura. Per riaggregarsi altrove.
Più tardi.
Ciò che il problema del Che fare? sottintendeva, era il mito dello sciopero generale.
Ciò che risponde alla domanda Come
fare?, è la pratica dello SCIOPERO
UMANO.
Lo sciopero generale lasciava intendere
che c’era uno sfruttamento limitato
nel tempo e nello spazio,
un’alienazione parcellare, dovuta a un
nemico riconoscibile, e dunque vincibile.
Lo sciopero umano risponde a un’epoca
in cui i limiti tra il lavoro e la vita arrivano
a scomparire.
In cui consumare e sopravvivere,
produrre dei «testi sovversivi» e fronteggiare gli effetti più nocivi della civiltà industriale,
fare sport, fare l’amore, essere genitore
o sotto Prozac.
Tutto è lavoro.
Perché l’Impero gestisce, digerisce, assorbe e reintegra
tutto quel che vive.
Anche «ciò che io sono», la soggettiva-
zione che non smentisco hic et nunc,
tutto è produttivo.
L’Impero ha messo tutto al lavoro.
Idealmente, il mio profilo professionale
coinciderà col mio volto.
Anche se non sorride.
Le smorfie del ribelle si vendono bene,
dopo tutto.
Impero, vuol dire che i mezzi di produzione son diventati dei mezzi di controllo,
nello stesso tempo in cui si avverava il
contrario.
Impero significa che ormai il momento
politico domina
il momento economico.
E contro questo, lo sciopero generale
non può nulla.
Ciò che bisogna opporre all’Impero è
lo sciopero umano.
Che non attacca mai i rapporti di produzione senza attaccare al tempo stesso i
rapporti affettivi che li sostengono.
Che mina l’economia libidinale inconfessabile,
che ritrova l’elemento etico – il come –
inibito in ogni contatto tra i corpi neutralizzati.
Lo sciopero umano è lo sciopero
che, laddove ci si aspetterebbe
questa o quella reazione prevedibile,
questo o quel tono contrito o indignato,
PREFERISCE DI NO.
Sfugge al dispositivo. Lo satura, o lo fa
esplodere.
Si riprende, preferendo
altro.
Altro che non è circoscritto nei possibili
autorizzati dal dispositivo.
Allo sportello di questo o quel servizio sociale, alle casse di questo o quel supermercato, nelle frasi di circostanza, in un
intervento degli sbirri,
secondo il rapporto di forza,
lo sciopero umano dà consistenza allo
spazio tra i corpi,
polverizza il doppio legame di cui sono
preda,
li sprona alla presenza.
C’è tutto un luddismo da inventare, un
luddismo dei meccanismi umani
che fanno girare il Capitale.
In Italia, il femminismo radicale è stato
una forma embrionale dello sciopero
umano.
«Non più madri, mogli e figlie, distruggiamo le famiglie!», era un invito al
gesto di spezzare gli incatenamenti previsti,
a liberare i possibili compressi.
Era un attacco contro gli schifosi commerci
affettivi, contro la prostituzione ordinaria.
Era un appello al superamento della
coppia, come unità elementare di gestione dell’alienazione.
Appello a una complicità, dunque.
Pratica insostenibile senza circolazione,
senza contagio.
Lo sciopero delle donne chiamava implicitamente a quello degli uomini e dei
bambini, chiamava a svuotare le fabbriche, le scuole, gli uffici e le prigioni,
a reinventare in ogni situazione un altro
modo d’essere, un altro come.
L’Italia degli anni ‘70 era una gigantesca
zona di sciopero umano.
Le autoriduzioni, le rapine, i quartieri occupati, le manifestazioni armate, le radio
libere, gli innumerevoli casi di «sindrome
di Stoccolma»,
anche le famose lettere di Moro detenuto, alla fine,
erano pratiche di sciopero umano.
All’epoca, gli stalinisti parlavano di «irrazionalità diffusa», tanto per intendersi.
Ci sono anche degli  autori
in cui è sempre presente
lo sciopero umano.
In Kafka, Walser,
o Michaux,
ad esempio.
Acquisire collettivamente questa capacità di scuotere
le familiarità.
Quell’arte di frequentare in se stessi
l’ospite più inquietante.
Nella guerra odierna,
in cui il riformismo d’urgenza del Capitale, per farsi ascoltare, deve vestire i
panni del rivoluzionario,
in cui le lotte più demokratiche, quelle
dei controvertici,
hanno impiegato l’azione diretta,
ci è stato riservato un ruolo.
Quello dei martiri dell’ordine demokratico,
che colpisce preventivamente ogni
corpo che potrebbe colpirlo.
Dovrei lasciarmi immobilizzare davanti a
un computer mentre le centrali nucleari
esplodono, mentre si gioca coi miei ormoni o mi si avvelena.
Dovrei intonare la retorica della vittima.
Perché, è noto,
tutti sono vittime, anche gli oppressori.
E godermi il fatto che una discreta circolazione del masochismo
risollevi la situazione.
Lo sciopero umano, oggi, significa
rifiutarsi di recitare il ruolo della vittima.
Significa attaccarlo.
Riappropriarsi della violenza.
Arrogarsi l’impunità.
Far comprendere ai cittadini sbigottiti
che anche se non entrano in guerra, in
guerra lo sono comunque.
Che là dove ci dicono «così o morire»,
in realtà
è sempre
«così e morire».
Per cui,
di sciopero umano
in sciopero umano, propagare
l’insurrezione,
dove ci sono soltanto,
dove siamo tutti
delle singolarità
qualunque

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